Pubblico un articolo scritto a quattro mani con il compianto prof. Giuseppe Roma, Professore Ordinario di Archeologia Medievale del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università della Calabria. Si tratta di alcuni spunti e riflessioni per tornare ad una politica pensante e lungimirante. Il progetto, nato 3 anni fa, vide il coinvolgimento di accademici del campo umanistico, ai quali fu chiesto di riflettere sul relativismo che a volte campeggia nelle Università, oggi quasi esclusivamente fucina di innovazione tecnologica, piuttosto che di evoluzione del pensiero.
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Si sa che storicamente un sistema socio-politico subisce delle trasformazioni e alla fine declina. Sperare di perpetuarlo produce danni ancora peggiori. Il sistema attuale, è noto, ha avuto come espressione politica partiti “ideologici”, che Bell (1965) ha definito religioni secolari. Non è questa la sede per affrontare tutto il dibattito critico (Aron 1955; Francis Kukuyama 1989; Gamble 2000, per citarne alcuni), ma rischiando la banalizzazione si può affermare in estrema sintesi che “le due religioni politiche” (capitalismo e marxismo), nate sul tronco dell’idealismo, hanno immaginato di risolvere i problemi dell’umanità con sistemi astratti, calati dall’alto, che potevano essere applicati indifferentemente in Russia o in Cina, in Italia, in Francia o in qualsiasi paese, prescindendo dalla Storia e dalla Cultura dei luoghi. Al centro dei due sistemi vi era lo sviluppo economico, che da solo, poteva determinare il “progresso” e per “progresso” si intendeva solo la crescita materiale della società. Funzionale alla crescita materiale era anche la politica culturale, tutta appiattita sul sapere “tecnico” a danno di quello “umanistico”. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.
Una società senza cultura (cultura non nel significato di erudizione o semplice sapere tecnico, ma come visione e sentimento della Storia e della Natura) equivale a una civiltà senza una struttura sociale, in cui l’attuale mitologia del fare, del pensare solo all’oggi, a “ora e subito”, frantuma i legami tra le persone, isola ognuno nel proprio egoismo da competizione, causa una sorta di depressione sociale, in cui qualsiasi altra dimensione è preclusa, perfino quella di un futuro, che non solo non si pensa, ma non si riesce neppure a immaginare.
L’odierna frammentata civiltà tecnocratica, senza una dimensione culturale vera, non sarà mai in grado di generare un’etica della responsabilità collettiva in grado di tenere unita la società. La Storia, infatti, è il prodotto dell’attitudine creativa dell’essere umano, il quale è libero solo perché, a differenza degli altri esseri viventi, quotidianamente è posto davanti all’”albero della conoscenza del Bene e del Male” e ha la possibilità di scegliere la sua strada.
È utile ricordare, che l’Ottocento è stato anche l’incubatore del concetto di Nazione e dei nazionalismi. Oggi, però, i confini nazionali non sono più sufficienti a controllare processi che sono diventati globali e le politiche nazionali, frammentate, non sono in grado di imporre decisioni politiche a vantaggio dei loro territori.
Può accadere, allora, che il malessere sociale, di fronte all’impotenza della Politica a dare risposte adeguate, si trasformi in rifiuto totale dei processi democratici e favorisca l’ascesa di soggetti populisti, come già sta avvenendo (Grillo in Italia, l’alleanza tra la francese Le Pen e l’olandese Wilders).
Occorre perciò che la Politica riacquisti il primato attraverso una nuova progettualità, che sia al passo con la Storia e che diventi punto di riferimento ideale e di consenso sociale (si ricordi sempre che più del 30% degli aventi diritto al voto si astiene).
Per essere all’altezza del compito e mettere il treno della Politica sui binari della Storia, preso atto che le scelte politiche nazionali sono inadeguate a governare processi sovranazionali, si propone:
Soggetto politico nuovo. Il soggetto politico nuovo non potrebbe avere successo se si dovesse ispirare a progetti sociali e politici di stampo ideologico già alle nostre spalle e ormai desueti. Destra, Sinistra e Centro, sono oggi solo distinzioni fittizie, vuote di contenuti programmatici, in assenza dei quali si vota un soggetto non per i significati politici che propone, ma perché “ispira” istintivamente più fiducia. La disinvolta “transumanza” politica ne è prova convincente.
L’esigenza di un capo che comandi (leader), è stata prerogativa in un primo momento delle tribù barbariche (si afferma il più forte e il più astuto). La monarchia è stata un traguardo successivo. In Democrazia si è avuto sempre la percezione, che chi era al vertice di un’istituzione, fosse un “primus inter pares” più che un “capo”. DC, PC, PSI, non erano, infatti, i partiti di De Gasperi, Togliatti e Nenni, ma progetti politici e sociali largamente condivisi.
I grandi partiti del recente passato hanno però esaurito il loro slancio propositivo con l’entrata in crisi del sistema socio-economico formatosi nell’Ottocento e sviluppatosi fino agli anni 70 del secolo scorso.
Lo spartiacque ideale oggi non corre più tra Destra, Sinistra o Centro, ma tra una visione, ancora legata al passato, che pone l’Economia al centro dei processi, finalizzando tutta l’azione umana alla produzione di beni materiali, e un’altra concezione che immagina l’Uomo al centro dei processi, una sorta di nuovo Rinascimento, che ritiene la crescita culturale come unica possibilità di riprogettare un futuro più “abitabile” per le nuove generazioni.
PUNTI DA SVILUPPARE
Gli Stati Nazione non sono più in grado, con la globalizzazione, di contenere all’interno dei loro confini la Storia del mondo, né dal punto di vista culturale, né etnico, né religioso, né economico e neppure linguistico. I riferimenti identitari, faticosamente costruiti dopo l’Unità d’Italia, sono saltati. Si pensi che nel 1861 appena il 4% si esprimeva in lingua italiana. Il resto della popolazione parlava dialetti, alcuni incomprensibili fra loro.
In Francia, solo nella prima metà del 1500, il Re impone l’uso del Francese all’alta burocrazia. Tutti si esprimevano nei dialetti (d’oc, d’oïl, bretone, normanno…). Fu solo dopo la Rivoluzione francese, che la massa della popolazione incominciò a parlare la lingua che, attraverso la pubblica istruzione, diventò la lingua nazionale. Per creare un riferimento identitario (mito delle origini), si emarginarono le minoranze esistenti all’interno dei territori o si crearono falsi miti come, per esempio, quello dei Germani. Oggi la Storia ha rimescolato le carte e non si può più tornare indietro, ma, soprattutto, gli Stati Nazione sono diventati entità troppo piccole per risolvere situazioni molto complesse.
È possibile eleggere un unico parlamento dell’Europa eletto dai cittadini? Oggi l’Europa, a causa di una politica solo economica, è diventata impopolare. È necessario incominciare a ‘ripensare’ l’Europa come luogo della Storia comune, come mosaico di popoli, aventi la stessa cultura e la medesima visione del mondo, originate dal pensiero Greco e dai vari Rinascimenti (Costantiniano, Federiciano, Carolingio, Rinascimento fiorentino, Neoclassicismo…).
Dopo l’esperimento della moneta unica, i movimenti populisti di oggi si pongono come obiettivo la regressione politico- monetaria all’interno dei confini nazionali: un ritorno alla vecchia Europa. Per contrastare questa pericolosa china, è insufficiente la ricetta degli attuali Partiti, ancorati a schemi socio-culturali dell’Otto/Novecento, ma è necessario indicare NUOVI PUNTI DI RIFERIMENTO IDEALI.
Aree culturali o Macro Regioni. Un’Europa con un solo Parlamento sarebbe un soggetto politico fortissimo, tale da mettersi alla pari, se non superare, Entità come Russia, USA, Cina, India, Brasile. Potrebbe, tuttavia, essere percepito dai cittadini come soggetto poitico distante e non adatto allo sviluppo dei singoli territori. Questo potrebbe essere vero, se la NUOVA EUROPA nascesse nel solco dei superati schemi ideologici (destra, sinistra, centro). La Nuova Europa, si dovrebbe caratterizzare, in primis, come soggetto culturale esaltando al massimo le tessere del suo mosaico, vale a dire tutte le aree omogenee dal punto di vista culturale (Catalogna, Baschi, Scozia, Bavaria, Italia meridionale, Centrale e Settentrionale, Valloni, Fiamminghi…). Tutte queste aree potrebbero avere, poi, forme di governo locale collegate al governo centrale, per poter meglio rispondere alle esigenze diverse dei vari territori (da studiare quali prerogative lasciare al centro e quali alle aree…).
Le Macro Regioni avrebbero il compito di puntare su nuovi modelli di sviluppo materiale e immateriale in linea con la vocazione storica dei loro territori.
Si consideri che oggi, con la fine del “modello di sviluppo industriale” quasi tutti i territori sono abbandonati a sé stessi (tranne piccole, isolate e non coordinate iniziative). È necessario allora riavviare tutte le attività che, prima della rivoluzione industriale, costituivano il motore del “sistema territorio”. È utile ricordare che le campagne costituivano il luogo della produzione. Riavviare di nuovo il sistema e coordinare le attività (prodotti del territorio, piccole aziende di trasformazione, turismo, percorsi culturali, attività di servizio…) con l’ausilio delle nuove tecnologie, significherebbe creare occupazione produttiva, esaltare le identità territoriali e dare una speranza di futuro ai giovani.
Aree urbane. Ottomila comuni, alcuni dei quali con meno di 100 abitanti e in via di spopolamento, non solo non sono più concepibili, ma costituiscono un problema per lo stesso territorio che è lasciato all’abbandono e in preda al dissesto idrogeologico. I piccoli centri, però, sono anche una pagina di Storia che non si può cancellare o lasciare deperire. Come intervenire, senza che vi sia il solito e inutile spreco improduttivo di risorse?
È noto che l’unica città che abbiamo in mente è la polis greca, tutta concentrata in uno spazio. Vi era, però, anche un altro modello di città, quella italica, che era costituita da villaggi sparsi sul territorio tra loro federati politicamente ed economicamente.
Questo modello potrebbe tornare attuale per tante aree omogenee sia culturalmente che geomorfologicamente, dove insistono centri abitati di piccole dimensioni, che potrebbero federarsi fra di loro e costituire un’unica area urbana. Il numero minimo per costituire un’area urbana dovrebbe non essere inferiore ai 30.000 abitanti.
I centri abitati attuali diventerebbero i quartieri di questa città sparsa sul territorio, collegati fra loro con le nuove tecnologie informatiche.
Le aree urbane potrebbero presentare progetti per lo sviluppo complessivo del loro territorio per esaltare i prodotti materiali e immateriali che sono alla base della loro identità e promuovere corsi di formazione per integrare nuovi “abitanti” disposti a partecipare alle attività del territorio e a ripopolare in parte le case abbandonate dei centri interni.
Immigrazione. Uno dei fenomeni che caratterizza il nostro tempo è la mobilità di masse di persone che si spostano dalle aree più povere verso quelle più ricche. Sono fenomeni che, se non governati, possono non fermarsi al malessere sociale, ma balcanizzare l’Europa.
Il fenomeno, se governato, può, invece, essere un’opportunità. Tutte le aree dell’Europa soffrono di un forte calo demografico e di invecchiamento della popolazione. Si sta verificando la stessa situazione, che alla fine del XV secolo investì anche l’Italia meridionale: villaggi abbandonati fin dal Medioevo, aree territoriali spopolate e territori in dissesto.
I Sanseverino di Bisignano in Calabria ripopolarono, investendo ingenti somme, ben 25 casali con gli Albanesi in fuga dai Balcani per l’occupazione turca e, dopo qualche generazione, gli Albanesi si integrarono così bene che le guerre risorgimentali in Calabria furono combattute in maggioranza dai giovani provenienti dai villaggi albanesi. Così fecero, nel 1600, anche i Serra di Cassano: investirono ingenti somme per risanare i territori, costruire case e distribuire sementi e bestiame ai nuovi arrivati e, dopo qualche anno, potevano affermare: “È vero che abbiamo investito migliaia di ducati, ma già al terzo anno, non solo siamo rientrati delle somme spese, ma ci abbiamo anche fatto un guadagno”. È inutile dire che territori, che erano abbandonati, tornarono a fiorire e consentirono ai feudatari di allora di condurre una vita ancora più agiata.
Per Cicerone, la grandezza di Roma fu determinata dall’integrazione degli stranieri nel proprio sistema civico e il cambiamento della città da semplice villaggio di pastori a capitale del mondo avvenne proprio grazie a questi presupposti. Le città greche che tennero sempre lontani gli stranieri, alla fine si ridimensionarono.
Una politica seria di integrazione, con investimenti nelle specificità dei vari territori e attraverso corsi di formazione per i nuovi arrivati, potrebbe risolvere la crisi e costituire una sorta di nuovo Rinascimento.